AI e moda: tra creatività e innovazione
Negli ultimi tempi tutti i giganti della vendita al dettaglio hanno adottato un approccio algoritmico alla moda e tra app che forniscono feedback o consigli sui propri outfit e camerini interattivi con specchi che riconoscono gli abiti indossati e ne suggeriscono altri da abbinare in base a stile, colore e umore, l’AI sembra essere l’ultimo trend della fashion industry.
La creazione di articoli di moda basati sull’AI porta il rapporto tra innovazione e creatività a un livello superiore e introduce una serie di domande, talvolta ancora senza risposta. Chi è il titolare delle creazioni dell’AI? L’AI può violare i diritti di proprietà intellettuale di terzi? Che tipo di dati personali vengono raccolti dall’AI? Il trattamento che ne deriva è soggetto alle norme sulla protezione dei dati? L’AI aumenterà o ridurrà la creatività nel settore della moda?
La tutela autorale delle opere create con l’AI
Secondo la legge italiana, le opere creative devono essere originali per ottenere la protezione del diritto d’autore e tradizionalmente il requisito dell’originalità è stato collegato alla persona fisica dell’autore.
Infatti, ai sensi dell’art. 6 della L. n. 633/1941 (Legge sul diritto d’autore), “la legittimazione originaria all’acquisto del diritto d’autore consiste nella creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale” dell’autore. Pertanto, le macchine e l’AI sembrano essere escluse dalla nozione di paternità.
Tale posizione è stata ribadita in una recentissima decisione dell’U.S. Copyright Office, che ha negato la registrazione di immagini generate dall’AI in quanto considerate non tutelabili ai sensi della normativa statunitense sul copyright. L’Ufficio ha infatti osservato che la registrazione di un’opera originale è possibile solo se questa sia stata creata da un essere umano dal momento che la legge sul copyright protegge solo “i frutti del lavoro intellettuale” che “si basano sui poteri creativi della mente” e tale disciplina è limitata alla tutela delle “concezioni intellettuali originali dell’autore”.
In conformità alla giurisprudenza (Feist Publ’ns, Inc. v. Rural Tel. Serv.; Burrow-Giles Lithographic Co. v. Sarony) e alla normativa (cfr. 17 U.S.C. § 102(a) e (b)) in materia di diritto d’autore, l’U.S. Copyright Office ha pertanto affermato che non è possibile concedere la tutela autorale a opere realizzate da una macchina o da un processo meccanico che funziona in modo casuale o automatico senza che vi sia un sufficiente apporto creativo o un sufficiente intervento da parte di un autore umano.
Conclusioni analoghe sono state raggiunte anche a livello nazionale con una recente pronuncia della Corte di Cassazione sul riconoscimento della tutela del diritto d’autore su un’opera digitale raffigurante un fiore, realizzata tramite l’uso di un software, che è stata utilizzata in una passata edizione del Festival di Sanremo.
Nel 2016, la RAI ha infatti utilizzato come scenografia della celebre kermesse canora un’opera digitale raffigurante un fiore reperita sul web senza però chiedere l’autorizzazione dell’autrice, che la aveva realizzata qualche tempo prima attraverso l’impiego di un software. Per tale motivo, due anni più tardi, l’autrice ha dunque citato in giudizio la RAI davanti al Tribunale di Genova, lamentando la violazione dei propri diritti d’autore sull’opera.
Confermando la decisione dei giudici di primo grado e in appello, la Suprema Corte si è soffermata sul concetto giuridico di creatività, ritenendo che questo non coincide con quello di creazione, originalità e novità assoluta. Secondo tale interpretazione, la creatività tutelata dalla normativa italiana è data dalla personale e individuale espressione di un contenuto oggettivo appartenente alle categorie elencate all’art. 1 della Legge sul diritto d’autore. Pertanto, un’opera dell’ingegno può essere protetta a condizione che sia riscontrabile in essa un atto creativo, seppur minimo, suscettibile di manifestazione nel mondo esterno.
Nel caso di specie, l’immagine digitale utilizzata nella scenografia del Festival di Sanremo non rappresentava semplicemente una riproduzione di un fiore, ma era una vera e propria rielaborazione, meritevole di tutela ai sensi del diritto d’autore, poiché idea originale e creativa proveniente dalla sua autrice. La Corte di Cassazione ha dunque rigettato la difesa di RAI per cui il processo dell’autrice si sarebbe limitato alla scelta di un algoritmo e all’approvazione del risultato generato dal software, precisando che l’uso di un software non esclude l’elaborazione di un’opera dell’ingegno tutelabile dal diritto d’autore, ma impone soltanto di scrutinarne il tasso di creatività con maggior rigore.
Pertanto, le opere d’arte algoritmiche possono accedere alla tutela del diritto d’autore, purché siano coinvolte scelte umane. Nel caso di una collezione di moda interamente disegnata dall’AI, la persona che ha sviluppato il software potrebbe dunque godere della protezione del diritto d’autore sia per il software stesso sia per l’opera creata con il suo utilizzo e presumibilmente essere ritenuta responsabile in caso di violazione dei diritti di proprietà intellettuale di terzi.
L’AI nell’analisi dei “big data”
In un sistema data-driven di questo tipo, i brand della moda stanno investendo sempre più nell’AI al fine di offrire ai propri clienti prodotti e servizi innovativi. Infatti, le case di moda non puntano solamente all’utilizzo delle opere algoritmiche che abbiamo appena analizzato, ma stanno altresì reinventando i propri siti e canali e-commerce ingaggiando assistenti di vendita virtuali, e-concierge e chatbot in grado di interagire con i clienti per aiutarli a scegliere e provare - anche da casa - i loro outfit preferiti, nonché per consentirgli di godere di una nuova ed esclusiva esperienza di acquisto.
In questa nuova realtà, un ruolo fondamentale viene sicuramente ricoperto dai dati raccolti tramite i siti web, le applicazioni online e i social network che consentono ai brand di comprendere quali sono i capi di abbigliamento più in voga e predire le nuove tendenze. Il carburante della fashion industry può, infatti, rinvenirsi proprio nell’utilizzo dei cosiddetti big data e dei sistemi di AI predittivi. Quando l’AI è integrata sulle proprietà digitali, i brand sono infatti in grado di profilare i propri clienti e utenti al fine di capire i loro interessi e le loro preferenze, creare campagne di marketing mirate e proporre un servizio personalizzato sulla base delle loro esigenze.
Tuttavia, la profilazione degli utenti e dei clienti dei brand attraverso l’analisi dei big data e l’utilizzo di algoritmi è considerato trattamento di dati personali a tutti gli effetti e, proprio per tale ragione, le maison che decidono di operare online offrendo servizi innovativi ai propri clienti devono confrontarsi con i requisiti previsti dalla normativa in materia di protezione dei dati applicabile e, in particolare, con gli obblighi e le responsabilità sanciti dal GDPR.
Ad esempio, le case di moda devono raccogliere e trattare – per il tempo strettamente necessario – solo i dati personali effettivamente utili a raggiungere gli scopi per cui sono stati raccolti, nel rispetto del principio di minimizzazione di cui all’art. 5 del GDPR. Non solo, per poter lecitamente raccogliere e trattare i dati personali i brand sono tenuti ad individuare la corretta base giuridica che – in caso di profilazione ottimizzata con l’uso di sistemi di AI – si deve rinvenire nel consenso dell’interessato. Il GDPR prevede, inoltre, specifici obblighi informativi e di trasparenza: l’art. 13 del GDPR richiede infatti che il titolare del trattamento fornisca alcune informazioni sul trattamento effettuato, sulle sue finalità e modalità, nonché sull’esistenza di una decisione automatizzata, compresa la profilazione, sulle logiche sottese alla sua adozione e delle conseguenze che possono derivarne per gli interessati. Da ultimo, fondamentale è anche l’esecuzione di una Data Protection Impact Assessment (DPIA) ai sensi dell’art. 35 del GDPR, in quanto questa tipologia di trattamento potrebbe risultare invasiva, comportando un rischio elevato per i diritti e le libertà degli interessati.
Le attività di monitoraggio e profilazione degli utenti online tramite algoritmi e altri strumenti di analisi dei big data possono inoltre essere ottimizzate grazie all’uso di meccanismi di combinazione dei dati raccolti direttamente dagli utenti o desunti dal comportamento di quest’ultimi (ad esempio, attività c.d. di custom audience matching e look-alike), anche tramite cookie e altre tecnologie di tracciamento.
Tali meccanismi non sono utilizzati solamente per monitorare l’utente sul web, ma anche per influenzarne il comportamento e le scelte, in particolare in relazione alle loro decisioni di acquisto in veste di consumatori, minando talvolta l’autonomia e la libertà individuali.
Proprio per tale ragione, i brand sono tenuti ad adottare specifiche cautele quando intendono utilizzare meccanismi di tracciamento degli utenti. Sul punto è intervento anche il Garante per la protezione dei dati personali che, con le sue Linee guida sui cookie e gli altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021, ha ribadito le circostanze in cui l’installazione e utilizzo dei cookie (o di altri strumenti di tracciamento) può avvenire sul terminale degli utenti e le regole per l’analisi dei dati raccolti tramite tali tecnologie. In particolare, per poter lecitamente installare cookie o altre tecnologie di tracciamento, i brand che operano online devono, tra le altre cose, (i) informare gli utenti con una informativa breve (c.d. “cookie banner”) che rimandi ad una informativa estesa (c.d. “Cookie Policy”) che delinei le finalità e modalità di trattamento dei dati raccolti tramite tali tecnologie, e (ii) raccogliere uno specifico consenso, ossia una chiara azione positiva da parte dell’utente che consapevolmente acconsente all’installazione dei cookie.
Quando l’AI diventa reale nascono i CGI
Grazie all’utilizzo dell’AI, i brand possono non soltanto profilare gli utenti e analizzare grandi quantità di dati, ma hanno la possibilità di offrire agli utenti esperienze di acquisto rinnovate ed innovative. Infatti, l’AI consente di generare – e far prendere vita – le diverse personalità del mondo reale anche nel mondo virtuale. Queste personalità sono dei veri e propri robot digitali che simulano in forma iperrealistica sembianze, qualità, espressioni, comportamenti e peculiarità umani, anche oltre i comuni stereotipi. Ne sono un esempio geniale gli influencer virtuali, ossia CGI (computer-generated imagery) che, nella loro forma virtuale, sono promotori dei più rinomati brand, sponsorizzandone i prodotti e i servizi, ma anche facendosi ambasciatori di principi e diritti.
Gli influencer virtuali sono l’ultima tendenza sui social media. Infatti, i social network, ad oggi, ospitano più di 200 influencer virtuali; tra questi i più seguiti sono Nefele, la prima influencer virtuale italiana portavoce dei valori di inclusione e diversità, le gemelle Eli e Sofi, Shudu, Lil Miquela, Noonoouri, Rozy e lo streamer virtuale CodeMiko celebre su Twitch. Sono già molti i brand di moda che si stanno rivolgendo a questi CGI per la pubblicizzazione dei propri prodotti. Ne sono un esempio Rihanna, che per promuovere il suo marchio di cosmesi Fenty Beauty ha scelto Shudu, e Prada, Chanel e Fendi che collaborano ormai da anni con la celebre Lil Miquela.
Questo a dimostrazione che anche i robot possono essere portatori di nuove mode. Talvolta, collaborare con influencer virtuali piuttosto che con persone reali, porta con sé addirittura vantaggi per le maison di moda. Infatti, se nel mondo reale c’è sempre un’alea di incertezza sull’agire umano data dal libero arbitrio delle persone, nel mondo virtuale, i brand possono esercitare un controllo totale sull’influencer tale da poter decidere come l’influencer deve presentarsi ai propri follower sia da un punto di vista estetico che comunicativo, anche al fine di scongiurare il più possibile danni reputazionali derivanti da comportamenti o iniziative esterne alla sponsorizzazione del brand stesso.
Anche se virtuali, gli influencer devono comunque rispettare le regole imposte dalle normative del mondo reale. Per tale ragione, gli obblighi di trasparenza in ambito pubblicitario si applicano anche a queste nuove forme di vita virtuali. Sempre in un’ottica di trasparenza, a questo si aggiunge la necessità che l’identità stessa di questi personaggi, non reali, sia resa esplicita sulle piattaforme tramite le quali veicolano messaggi pubblicitari, in modo che l’utente sia cosciente di interagire con un avatar e non con un umano. Ciò alla luce dell’idea secondo cui si dovrebbe puntare allo sviluppo di tecnologie affidabili sotto il profilo sia etico che morale, tali da costituire uno strumento utile alla società e commisurato alle esigenze umane.
Ancora, è interessante notare come avatar e sistemi di AI possano essere legati a forme di “abuso” dell’immagine, come nel caso dei deepfake che potrebbe rivelare aspetti decisamente più gravi in termini di violazione dei diritti della personalità, quali possibili danni all’immagine, alla reputazione e all’identità digitale della persona, diffusione non consensuale di immagini private, potenziali rischi di attacchi di tipo phishing, vishing, furto d’identità e violazione di misure di sicurezza basate sul riconoscimento biometrico.
In tale contesto, risulta dunque essenziale che i sistemi utilizzati siano cyber resilient, nonché emerge l’importanza di adottare schemi di risposta agli incidenti in grado di rimediare agli impatti negativi sul business e proteggere la reputazione dell’influencer virtuale così come quella del brand, anche predisponendo un remediation plan “post-attacco” che possa attenuare i possibili risvolti in termini di richieste di risarcimento o altre forme di responsabilità.
È pertanto evidente che lo sviluppo di queste nuove tecnologie richieda un intervento regolatorio tale da evitarne gli abusi. Un esempio, in tal senso, è dato da Meta che ha iniziato a lavorare con i suoi sviluppatori ed esperti ad un Ethical Framework per stabilire confini più chiari sull’utilizzo degli avatar e, in particolare dei cosiddetti virtual influencer, sia in termini di potenziali danni che di vantaggi. Ad oggi, l’obiettivo primario per Meta risulta essere la trasparenza e l’importanza di fornire sempre la possibilità di scindere tra ciò che è reale e ciò che non lo è.