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28 giugno 20249 minuti di lettura

Antitrust Bites – Newsletter

Giugno 2024
L’AGCM ha avviato una consultazione pubblica sullo schema di regolamento sulle forme di collaborazione e cooperazione per l’attuazione del Digital Markets Act

L’AGCM ha avviato una consultazione pubblica avente ad oggetto lo schema di regolamento sulle forme di collaborazione e cooperazione per l’attuazione del Regolamento (UE) n. 2022/1925, cd. Digital Markets Act (DMA).

Il regolamento oggetto di consultazione è volto ad attuare l’articolo 18 della Legge n. 214/2023 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2022), che tra l’altro delega l’AGCM ad adottare appositi regolamenti che disciplinino l’esercizio dei suoi poteri di indagine nel caso di potenziali violazioni degli obblighi dei gatekeepers previsti dagli artt. 5, 6 e 7 del DMA.

Lo schema di regolamento prevede anzitutto la facoltà per l’AGCM di trasmettere richieste di informazioni e di esibizione documentale a fronte di possibili violazioni degli obblighi previsti dagli artt. 5, 6 e 7 DMA, con la conseguente applicabilità delle sanzioni e penalità di mora previste dall’art. 12, co. 2 ter della L. 289/1990 in caso di rifiuto, omesso riscontro o falsità delle informazioni o dei documenti forniti.

Come anche previsto dall’art. 38(7) DMA, l’AGCM può avviare indagini in relazione a potenziali inosservanze degli anzidetti obblighi solo dopo averne informato la Commissione, la quale rimane l’“unica autorità preposta all’applicazione” del DMA. Ne deriva che l’apertura di un procedimento analogo a quello avviato dall’AGCM, da parte della Commissione, determina la conclusione dell’istruttoria avviata dall’AGCM (o priva l’Autorità della facoltà di avviarla, laddove non lo abbia ancora fatto).

I poteri di indagine che l’AGCM può esercitare nell’ambito delle istruttorie relative a potenziali inosservanze degli obblighi dei gatekeepers sono gli stessi previsti dall’articolo 14, commi da 2 a 2 quinquies della L. 287/1990, che includono il potere di:

  1. formulare richieste di informazioni e di esibizione documentale alle imprese;
  2. convocare rappresentanti di imprese e persone fisiche che possano avere informazioni rilevanti ai fini dell’istruttoria;
  3. disporre perizie e analisi economiche e statistiche, nonché consultare esperti;
  4. disporre ispezioni.

Quando l’AGCM ritiene che l’indagine sia sufficientemente istruita, comunica alle imprese il termine di chiusura della fase di acquisizione degli elementi probatori e riferisce alla Commissione i risultati dell’indagine.

Resta in ogni caso salva la facoltà dell’AGCM di avviare istruttorie ex art. 14 L. 287/1990 se durante l’indagine sulle potenziali violazioni del DMA emergono indizi di violazioni del diritto della concorrenza o di abuso di dipendenza economica.

I soggetti interessati a partecipare alla consultazione pubblica possono presentare le proprie osservazioni allo schema di regolamento entro il 3 luglio 2024.

 

La CGUE si pronuncia sugli interessi di mora dovuti dalla Commissione UE alle imprese a seguito di rideterminazione o annullamento della sanzione

La Corte di Giustizia dell’UE, riunita in Grande Sezione, l’11 giugno 2024 si è definitivamente pronunciata nella causa C-221/22 in ordine alla debenza da parte della Commissione europea degli interessi di mora sulle somme da questa indebitamente percepite e versate da imprese sanzionate per aver violato la normativa antitrust, a seguito della rideterminazione o annullamento della sanzione.

La pronuncia in oggetto trae origine dal ricorso proposto innanzi al Tribunale dell’UE da un’impresa cui la Commissione aveva imposto una sanzione per violazione del divieto di abuso di posizione dominante ex art. 102 TFUE. Il Tribunale, accogliendo il ricorso, aveva ridotto l’ammenda versata provvisoriamente e imposto alla Commissione il rimborso dell’importo indebitamente percepito. Tuttavia, alla richiesta dell’impresa di corrisponderle anche gli interessi di mora per il periodo tra il pagamento dell’ammenda e il rimborso, la Commissione aveva risposto negativamente. Il Tribunale dell’UE, successivamente chiamato a pronunciarsi sul ricorso di annullamento della decisione della Commissione proposto dall’impresa, lo aveva accolto parzialmente, ritenendo che il rifiuto della Commissione di versare tali interessi costituisse una violazione sufficientemente qualificata dell’art. 266(1) TFUE, che impone alle istituzioni UE di adottare tutte le misure necessarie per eseguire una sentenza di un giudice dell’Unione che annulla o riforma un loro atto. Il Tribunale aveva pertanto condannato la Commissione al risarcimento del danno subito dall’impresa in ragione del rifiuto della Commissione di versare gli interessi di mora sull’importo dell’ammenda indebitamente percepito, per il periodo in questione.

La CGUE, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha integralmente respinto l’impugnazione della Commissione, giungendo così a conclusioni diverse rispetto a quelle rassegnate nel novembre 2023 dall’Avvocato Generale Collins (si veda Antitrust Bites - novembre 2023).

Secondo la CGUE, dall’articolo 266(1) TFUE, emerge che l’istituzione (nel caso di specie, la Commissione) da cui proviene l’atto annullato è tenuta ad adottare i provvedimenti necessari per l’esecuzione della sentenza che ha dichiarato l’atto nullo con effetto ex tunc e che, pertanto, nel caso di annullamento di una sanzione, tale istituzione è tenuta a rimborsare in tutto o in parte l’importo dell’ammenda pagata a titolo provvisorio, maggiorato degli interessi per il periodo compreso tra la data del pagamento provvisorio di tale ammenda e la data del rimborso di quest’ultima. La ratio di tale previsione, ad avviso della Corte, è di rimettere l’impresa interessata nella situazione in cui si sarebbe trovata se non fosse stata privata, per tutto tale periodo, del godimento della somma indebitamente corrisposta.

 

Cancellazione di messaggi Whatsapp nel contesto di un’ispezione antitrust: la prima sanzione della Commissione

La Commissione europea ha recentemente imposto una sanzione di circa 16 milioni di euro ad un’impresa dopo aver accertato che, nel corso di un’ispezione avvenuta a marzo 2023, un dipendente della società aveva cancellato alcuni messaggi Whatsapp scambiati con un concorrente e aventi ad oggetto informazioni di natura commerciale.

Si tratta del primo caso in cui la Commissione applica una sanzione per la cancellazione di messaggi scambiati con un dispositivo mobile tramite app di social media. Ciò nell’esercizio della facoltà, riconosciuta alla Commissione dal Regolamento 1/2003, di imporre sanzioni fino all’1% del fatturato totale delle imprese che ostacolano le indagini antitrust.

La Commissione ha ritenuto la condotta sanzionata significativamente grave, considerato in particolar modo che il dipendente aveva cancellato i messaggi Whatsapp contenenti informazioni commercialmente sensibili solo dopo essere stato informato circa le ispezioni nei confronti della società. Inoltre, la Commissione non è stata informata della cancellazione delle conversazioni, ma lo ha potuto appurare solo dopo aver rilevato il dispositivo mobile del dipendente.

La Commissione – che aveva inizialmente determinato la sanzione in misura pari allo 0,3% del fatturato dell’impresa – ha infine valutato positivamente la collaborazione prestata dall’impresa durante e dopo le ispezioni, anche al fine di recuperare le conversazioni Whatsapp cancellate, e ha ridotto la sanzione della metà, determinandola in misura pari a 15,9 milioni di euro (equivalenti allo 0,15% del fatturato dell’impresa).

 

Il Consiglio di Stato si pronuncia sul potere dell’AGCM di adottare misure cautelari nei procedimenti ex art. 8, comma 2-quater, della Legge 287/1990

Con l’ordinanza n. 1881, pubblicata lo scorso 20 maggio 2024, il Consiglio di Stato si è pronunciato sul potere di adozione di misure cautelari dell’AGCM in relazione a fattispecie regolate dall’art. 8, comma 2-quater, della Legge 287/1990 – norma che impone alle imprese esercenti la gestione di servizi di interesse economico generale o operanti in regime di monopolio di rendere accessibili, a condizioni equivalenti, i beni o servizi resi disponibili alle società partecipate o controllate anche alle imprese direttamente concorrenti.

Pronunciandosi su un appello cautelare proposto da un’impresa destinataria di un provvedimento impositivo di misure cautelari adottato da AGCM nell’ambito di un procedimento ex art. 8, comma 2-quater, Legge 287/1990, il Consiglio di Stato ha osservato che il comma 2-quinquies dell’art. 8 in esame nel disporre che nel caso di cui al comma 2-quater, “l’Autorità esercita i poteri di cui all’articolo 14”, estende il campo di applicazione dei poteri istruttori di cui all’articolo 14 della Legge 287/90 (che si riferisce alle fattispecie di intese restrittive della concorrenza e abusi di posizione dominante), anche alle ipotesi di violazioni della disposizione di cui al comma 2-quater. Il medesimo richiamo espresso non è, tuttavia, previsto anche per l’articolo 14-bis della Legge, che disciplina, invece, i poteri cautelari dell’AGCM. Ciò, ad avviso del Consiglio di Stato, solleva dubbi sulla sussistenza di un’adeguata base giuridica del potere dell’Autorità di imporre misure cautelari nei casi di presunta violazione dell’art. 8, comma 2-quater, della Legge n. 287/1990.

In considerazione di ciò, nonché del fatto che, nel caso di specie, le misure imposte dall’AGCM in via cautelare comportavano interventi di dubbia reversibilità ed erano suscettibili di determinare effetti impattanti sull’organizzazione della società ricorrente, il Consiglio di Stato ha accolto l’appello sospendendo gli effetti del provvedimento cautelare adottato dall’AGCM.

 

L’AGCM ha chiuso, senza accertare alcun illecito, un procedimento avviato per una presunta intesa a seguito di un’adesione al programma di leniency

Con la decisione adottata il 21 maggio 2024, l’AGCM ha chiuso l’istruttoria avviata su una presunta condotta collusiva nell’ambito di gare per la fornitura di radiofarmaci a strutture pubbliche e private, senza accertare alcuna violazione. L’Autorità ha ritenuto che non sussistessero sufficienti elementi di prova della collusione, nonostante il procedimento fosse stato avviato a seguito dell’adesione di una delle parti della presunta intesa al programma di leniency.

In particolare, la condotta prospettata dal leniency applicant sarebbe consistita in un’intesa posta in essere tra imprese attive nel mercato della produzione e vendita di radiofarmaci, realizzata anche per il tramite dell’Associazione Italiana di Medicina Nucleare e Imaging Molecolare, nell’ambito delle procedure di selezione svolte a livello nazionale per la fornitura di tali farmaci a ospedali pubblici e a cliniche private. La collusione avrebbe avuto la finalità di eliminare la concorrenza in occasione della partecipazione a tali gare attraverso la costituzione di ATI sovrabbondanti o la ripartizione delle commesse, nonché tramite un uso distorto del servizio di c.d. back-up ai fini della fornitura di detti prodotti.

L’AGCM, tuttavia, ha ritenuto che gli elementi raccolti durante l’istruttoria non consentissero di corroborare la violazione ipotizzata in sede di avvio e prospettata dal leniency applicant. L’Autorità ha, infatti, rilevato la particolarità del mercato in esame, il quale richiede un grado di collaborazione tra le imprese concorrenti al fine garantire, in modo continuativo, l’assolvimento del servizio di fornitura di radiofarmaci. Infatti, tali medicinali sono altamente deperibili e necessitano di un’infrastruttura di produzione costosa e presente solo in misura limitata in Italia. Questa situazione implica un certo grado di cooperazione tra i concorrenti, al fine di garantire la continuità delle forniture anche attraverso meccanismi di “back-up”. L’Autorità, quindi, ha ritenuto che gli accordi tra le imprese in esame non superassero il limite della collaborazione richiesta dalla particolarità del mercato. In particolare, l’AGCM ha ritenuto non possibile affermare che le imprese coinvolte potessero partecipare individualmente alle gare e, dunque, che le ATI potessero considerarsi sovrabbondanti. Inoltre, ha escluso che l’uso dei meccanismi di c.d. back-up potesse qualificarsi come “distorto” e in violazione del divieto di intese restrittive della concorrenza.