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14 giugno 20245 minuti di lettura

Traduzione in italiano delle informazioni ai consumatori: il Tribunale di Como circoscrive l’obbligo previsto dal codice del consumo alle informazioni obbligatorie

Premessa

Il Codice del Consumo (D. Lgs. n. 206/2005) prescrive l’uso della lingua italiana per le informazioni ai consumatori apposte sui prodotti o sulle relative confezioni. In particolare, l’Art. 9, comma 1, dispone che “Tutte le informazioni destinate ai consumatori e agli utenti devono essere rese almeno in lingua italiana”; il comma 2 della norma in parola prevede invece che “Qualora le indicazioni di cui al presente titolo siano apposte in più lingue, le medesime sono apposte anche in lingua italiana e con caratteri di visibilità e leggibilità non inferiori a quelli usati per le altre lingue”.

La portata applicativa dell’obbligo di traduzione in italiano delle informazioni non è però inequivoca.

Da un lato, il riferimento del comma 1 a “tutte le informazioni” parrebbe imporre l’uso della lingua italiana per qualsivoglia informazione riportata sulle confezioni dei prodotti. Dall’altro lato, il comma 2, contemplando la possibilità che sulle confezioni siano presenti indicazioni in lingua straniera, circoscrive l’obbligo di traduzione alle “indicazioni di cui al presente titolo”, dunque soltanto a quelle imposte dall’Art. 6 del Codice del Consumo. Tra queste, vi sono ad esempio le indicazioni circa la denominazione legale o merceologica dei prodotti, la presenza di sostanze pericolose, i materiali di composizione o le istruzioni e precauzioni d’uso.

L’assenza di una univoca interpretazione della norma e di utili precedenti giurisprudenziali hanno sino ad oggi avuto non poche ricadute per gli operatori del mercato, e specie per le aziende che vendono i medesimi beni di consumo in diversi Paesi. Molte hanno adottato un approccio prudente, che ha comportato tuttavia aggravi economici connessi alla creazione di confezioni ad hoc per i prodotti destinati al mercato italiano.

Di recente, una decisione del Tribunale di Como ha però contribuito a fare chiarezza.

 

La decisione

Nella primavera di quest’anno, una società distributrice di prodotti elettronici ha impugnato un’ordinanza di confisca, disposta in virtù dell’assenza della traduzione in italiano di talune informazioni apposte sulle confezioni ed etichette dei prodotti. Si trattava però di informazioni per lo più volte a decantare le qualità dei prodotti, come tali non annoverabili tra quelle prescritte dall’Art. 6 del Codice del Consumo.

Secondo la ricorrente, un obbligo indiscriminato di traduzione in italiano delle informazioni apposte sui prodotti si sarebbe posto in contrasto con il principio comunitario di libera circolazione delle merci, che preclude l’adozione di qualsiasi misura, diretta o indiretta, che ingiustificatamente ostacoli il commercio di beni all’interno dell’Unione europea. Né, secondo quanto argomentato, una compromissione della libera circolazione delle merci avrebbe potuto ritenersi giustificata da esigenze imperative di tutela dei consumatori, essendo gli interessi di questi ultimi già presidiati dalle norme che impongono di fornire, in lingua italiana, le informazioni obbligatorie di cui all’Art. 6 del Codice del Consumo.

La ricorrente, infine, ha altresì rammentato che la Corte di Giustizia dell’Unione europea aveva già nel 1999 ammonito i Paesi membri, esprimendo il seguente principio di diritto: “In assenza di una completa armonizzazione delle esigenze di tipo linguistico relative alle indicazioni figuranti su prodotti importati, gli Stati membri possono adottare provvedimenti nazionali recanti l’obbligo di redigere le suddette indicazioni nella lingua della regione ove i prodotti vengono messi in vendita o in un’altra lingua facilmente comprensibile per i consumatori di tale regione, a condizione che i suddetti provvedimenti si applichino indistintamente a tutti i prodotti nazionali ed importati ed abbiano carattere di proporzionalità rispetto allo scopo della tutela del consumatore da essi perseguito. I detti provvedimenti devono, in particolare, limitarsi alle indicazioni cui lo Stato membro attribuisce carattere di obbligatorietà e relativamente alle quali l’uso di altri mezzi diversi dalla traduzione non consentirebbe un’adeguata informazione dei consumatori” (Corte di Giustizia dell’Unione europea, 3 giugno 1999, Colim / Bigg’s Continent Noord, C-33/97).

Una lettura dell’Art. 9 del Codice del Consumo conforme al diritto comunitario avrebbe dunque dovuto circoscrivere l’obbligo di traduzione in italiano alle sole informazioni prescritte ex lege.

Di contrario avviso era l’autorità che aveva disposto la confisca, che, costituendosi in giudizio, ha insistito per un’interpretazione più estensiva della norma.

Con sentenza del 29 maggio 2024, aderendo alla tesi della ricorrente, il Tribunale di Como ha revocato l’ordinanza di confisca.

In particolare, accertato che le informazioni prescritte dalla legge erano tradotte in italiano, il Giudice ha evidenziato che la mancanza della traduzione delle ulteriori informazioni non ha determinato “una concreta lesione degli interessi del consumatore”. Né, secondo il Tribunale, “si potrebbe ritenere che l’obbligo di traduzione di cui all’art. 9 cod. cons. debba riguardare necessariamente tutte le indicazioni presenti sulla confezione, a prescindere dalla sussistenza di un concreto interesse informativo per il consumatore, giacché altrimenti, come correttamente dedotto da parte ricorrente, il predetto assetto normativo si porrebbe in contrasto con il principio di libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione Europea (art. 34 TFUE)”. Infine, si legge nella pronuncia, “tale impostazione appare maggiormente coerente con il principio di offensività di cui all’art. 49 c.p., cui si conforma anche la disciplina in materia di illeciti amministrativi, che impone di perimetrare il fatto tipico alla luce di una concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma sanzionatoria”.

La decisione è particolarmente rilevante giacché rappresenta il primo arresto della giurisprudenza di merito sul tema, sinora oggetto di molteplici e contrapposte interpretazioni, e può avere ricadute significative per tutte le società che commercializzano in Italia beni di consumo.

Nel giudizio, la ricorrente è stata assistita con successo dai professionisti del dipartimento IPT di DLA Piper, e in particolare da Gualtiero Dragotti, partner, Massimiliano Tiberio, lawyer, e Camila Francesca Crisci, trainee lawyer.