Smart-Working: regolamentazione nazionale e prospettive future
Se esiste un’espressione che, dall’inizio dell’emergenza pandemica, è ricercata quasi quanto quella che dà il nome al virus che l’ha generata è, senza dubbio, quella inglese di “smart-working”. Il tentativo di contenere la diffusione del Covid-19 va difatti, da almeno un anno e mezzo, di pari passo con una rivisitazione di quello che è il concetto tipico di “sede di lavoro”.
Non si può negare che il ricorso allo smart-working si sia rivelato una misura efficace e immediata atta a limitare - laddove possibile in relazione alla tipologia dell’attività lavorativa - la circolazione delle persone (e quindi anche del virus) evitando conseguenze che avrebbero potuto essere ben più dannose, specialmente nelle fasi più critiche della pandemia.
E’ al tempo stesso innegabile che, all’atto pratico, un po' di confusione ne sia derivata e che, in alcuni casi, una mancata delimitazione del campo di applicazione (di fatto, massivo) oltre che il totale abbattimento dei confini geografici (da parte del virus) abbia finanche determinato qualche situazione di abuso e, in ogni caso, si sia rivelata ai limiti degli stessi parametri giuridici che regolamentano tale istituto nel nostro ordinamento.
Frequenti domande sono, anche, conseguite in ambito internazionale: e così, ci si è chiesti e ci si chiede tuttora come debba essere inquadrata, da un punto di vista giuslavoristico, ad esempio, la fattispecie di un lavoratore italiano “bloccato” all’estero per la c.d. quarantena/isolamento fiduciario piuttosto che per motivi familiari legati in qualche modo al Covid-19 o, semplicemente, perché desideroso di lavorare - in regime di smart-working - dalla propria c.d. doppia casa e /o da località di vacanza (c.d. “outbound”). E viceversa, lo stesso, per i lavoratori stranieri in ingresso in Italia (c.d. “inbound”). Con conseguenze non da poco per gli impatti fiscali e previdenziali, oltre che ai fini delle responsabilità datoriali anche in ambito di salute e sicurezza.
Per quanto questi temi possano sembrare esclusivamente legati alla persistente situazione emergenziale, siamo in realtà tutti attori e fruitori di un nuovo modo di lavorare e se, da un lato, la pandemia cesserà (come tutti ci auguriamo, anche presto), dall’altro, siamo davvero convinti che, dopo che questa dematerializzazione della sede di lavoro si è - volenti o nolenti - imposta nel nostro quotidiano, riusciremo a ripristinare la situazione antecedente al marzo 2020 (quando, con il primo decreto governativo emergenziale è stato di fatto sancito l’inizio della pandemia)?
Insieme ai quesiti, diverse proposte arrivano d’Oltralpe su quello che, ad oggi, viene di fatto qualificato nell’ambiente del diritto del lavoro come “hybrid working model”.
L’assenza di una specifica normativa a livello europeo e internazionale complica maggiormente la regolamentazione di quelle situazioni che, proprio per il loro carattere flessibile e transnazionale, vengono oggi tutte ricondotte, nel nostro ordinamento, all’istituto dello smart-working, che si rivela certamente più adattabile rispetto al diverso istituto del telelavoro, ma che per la gestione di specifiche tematiche anche di tipo amministrativo e burocratico risulta ancora un po' limitato.
Basti solo pensare - in un contesto multinazionale ed europeo - se e quali adempimenti debbano essere espletati nel caso di lavoratori in regime di smart-working (sia nel caso outbound che inbound). Per un eccesso di scrupolo, sarebbe corretto assimilare lo smart-worker al lavoratore distaccato? O, ancora in materia di sicurezza sociale, per stabilire se una parte sostanziale delle attività sia svolta in un dato Stato membro piuttosto che in un altro, possono valere anche per lo smart-worker i criteri indicativi di cui al Regolamento del Parlamento Europeo 987/2009 in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale?
Tutte domande che, allo stato attuale, possono solo trovare parziali risposte in applicazione di criteri interpretativi a oggi disponibili e in conformità ai principi generali dell’ordinamento italiano ed europeo ma che lasciano comunque spazio a una situazione di incertezza giuridica.
Nel frattempo, è utile fare un po' di chiarezza su quella che è la regolamentazione della materia a livello nazionale.
Come è noto, lo smart-working (rectius, il “lavoro agile”) è stato ufficialmente introdotto nel nostro ordinamento nel 2017 “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato” “allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (L. 81/2017, capo II).
Il lavoro agile non è tuttavia l’unica tipologia di lavoro da remoto prevista dal nostro ordinamento giuridico. Ben prima del 2017, a seguito del recepimento dell’Accordo Quadro Europeo del 16 luglio 2002, è stato stipulato il 9 giugno 2004, tra le organizzazioni nazionali di rappresentanza delle imprese e le associazioni sindacali più rappresentative, un Accordo interconfederale sul telelavoro.
Le due tipologie sono nettamente distinte tra di loro e per meglio comprendere la loro diversa disciplina è sufficiente pensare che, nel primo caso (smart-working), il lavoratore è autorizzato a lavorare in qualunque altro posto che non sia il luogo di lavoro previsto nel contratto di assunzione (che rimane, pertanto, l’unica e sola sede di lavoro); nel secondo caso (telelavoro), l’abitazione del lavoratore viene identificata come vera e propria sede di lavoro.
Entrambi gli istituti richiedono l’obbligo di un accordo scritto tra le parti. Tuttavia, a fronte dell’emergenza Covid-19, nel caso dello smart-working, per velocizzare le tempistiche, tale obbligo è stato temporaneamente sospeso (da qui il nome di smart-working agevolato) fino alla fine dello stato di emergenza.
Per quanto concerne gli obblighi di salute e sicurezza, pur rimanendo il datore di lavoro responsabile in entrambi i casi, questi sono più stringenti nel caso del telelavoro dove un vero e proprio sopralluogo presso la “sede di lavoro abitativa” del dipendente deve essere attuato dall’azienda. Tale ipotesi non è invece prevista nel caso dello smart-working anche perché, come si è detto, la sede di lavoro rimane proprio l’azienda stessa.
Il ricorso al telelavoro non ha avuto certamente il seguito invece riscontrato per lo smart-working a causa della pandemia. Ad ogni modo, come si è detto, gli operatori del settore hanno la netta percezione che per quanto questo istituto abbia coperto in qualche modo le esigenze sanitarie nazionali, non sia ancora pienamente adattabile allo scenario attuale e soprattutto a quello che ci si potrà e dovrà necessariamente aspettare nella fase post-Covid. Certamente va riconosciuto che la finalità in forza della quale il D.Lgs. 81/2017 ha introdotto lo smart-working così come la sua attuale disciplina è di fatto incompatibile con la condizione di un dipendente che lavora costantemente e perennemente da remoto.
Sicuramente l’intervento a livello individuale e collettivo (tramite il confronto e il raggiungimento di accordi con le organizzazioni sindacali) può aiutare a supplire i vuoti dell’attuale panorama legislativo.
L’invito a fare uno sforzo ulteriore e superare anche del tutto il concetto di “sede di lavoro” è una sensazione molto forte (forse auspicata più dai lavoratori che dai datori di lavoro stessi) ma di difficile portata realistica. Non va, peraltro, neanche dimenticato che, ad oggi, la sede di lavoro è uno di quegli elementi espressamente richiesti dalla legge (D.Lgs. 26 maggio 1997, n. 152) in attuazione di una direttiva comunitaria (direttiva 91/533/CEE concernente l'obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro). Tra le informazioni che il datore di lavoro è tenuto a fornire al lavoratore, entro trenta giorni dalla data dell'assunzione, vi è infatti “il luogo di lavoro; in mancanza di un luogo di lavoro fisso o predominante, l'indicazione che il lavoratore è occupato in luoghi diversi, nonché la sede o il domicilio del datore di lavoro” (così come testualmente riportato dall’art. 1, comma 1 del D.Lgs. 152/1997).
Se le esigenze di alcuni lavoratori subordinati possono, dunque, ritenersi ampiamente soddisfatte dal ricorso allo smart-working, forse non lo stesso può dirsi per le aziende che si trovano comunque limitate nell’esercizio dei propri tipici poteri, ivi incluso quello direttivo e di controllo o, in ogni caso, un po' private di confini chiari e delimitati per inquadrare le proprie fattispecie di fatto e diritto.
Per non dimenticare, da ultimo, il ruolo sociale che da sempre assume il rapporto di lavoro che non può certamente ridursi a uno svilimento delle interazioni interpersonali nel proprio ambiente tipico, individuabile - nell’accezione comunemente accolta - presso la sede del datore di lavoro.
Riflessioni doverose che non possono passare inosservate alla luce dei repentini cambiamenti imposti dall’epidemia e dalla rapida evoluzione che ne è conseguita anche nel mondo del lavoro, dalla quale difficilmente si potrà tornare indietro.
Non può che auspicarsi pertanto che un intervento del legislatore italiano, prima, e di quello comunitario, poi, possa circoscrivere la figura del lavoratore da remoto “post-Covid”, delimitandone disciplina e regime, probabilmente ricorrendo all’istituzione di un tertium genus, diverso da quello che oggi, in mancanza d’altro, si è inevitabilmente ricondotto allo schema di smart-working o di telelavoro.